La mia bisnonna non l’ho conosciuta di persona. E’ morta poco prima che io nascessi. Poco tempo fa ho trovato in una vecchia scatola, dimenticata da tutti, il suo diario, insieme a una macchina fotografica e a tante foto. Ho così avuto modo di scoprire l’inquieto pensare della nonna, il suo continuo dialogare con se stessa e con altri personaggi più o meno verosimili e reali. La fantasia faceva scorrere una quantità d’immagini nella sua mente e lei scriveva, raccontava, dipingeva o si lasciava galleggiare dall’emozioni che la prendevano. A volte però c’era bisogno che tutto si fermasse e stesse in silenzio, perché, diceva, “era il tempo di aspettare”.
A questo punto mi ero fatta l’idea di una persona estrosa e piuttosto strana, ma proseguendo nella lettura cominciai a pensare che fosse decisamente fuori di testa!
A proposito della sua macchina fotografica, che lei chiamava la
Macchina del Tempo, diceva che serviva a far aspettare il tempo e che perciò andava usata con grande rispetto e parsimonia: quando ce n’era bisogno la nonna prendeva la sua macchina, la caricava, poi l’accendeva, e allora tutto intorno a lei si fermava. Lei cominciava a camminare e a guardare, a studiare quasi, le persone che incontrava, congelate in una posa. Alcune di queste le registrava sulla pellicola con la sua macchina. Quando sentiva di aver camminato a sufficienza nel silenzio di un mondo in stand-by spegneva la macchina e il tempo ricominciava a muoversi come sempre. Mi sembrava davvero follia ma ho voluto comunque dare un’occhiata alle foto. Non so se la macchina della nonna era riuscita a far aspettare il tempo, che solo a dirlo pare un ossimoro, ma di certo aveva colto le persone che erano ritratte nelle foto in uno stato di attesa. Ne guardo alcune e una dopo l’altra prendono forma delle storie. Ne trascrivo qualcuna di seguito.
Il giovane lettore attende che i panni sporchi siano di nuovo puliti, aspetta un nuovo inizio e intanto si riconcilia col proprio angelo, che spalmatosi sul muro gli rimane silenziosamente attaccato.
L’attrice è pronta, al centro del palcoscenico, in mimetica fusione con la scenografia che le sta intorno, occhi fissi sul copione, attende il segno per iniziare la sua parte.
Sotto il segno dei gemelli s’incrociano, ma non s’incontrano, gli sguardi di due uomini fermi ai lati esterni di un cantone. Al numero due di quella strada sono in attesa di qualcuno che forse si trova già lì.
Il giovane dalla pelle scura aspetta persone che si fermino da lui, per le storie e le rime che vende, per le
parole dall’Africa che nella sua mente si ripetono in famigliari melodie.
Tra le scarpe e la gente c’è anche il rischio di scomparire, di dissolversi nel proprio sfondo. Lei cerca di sfuggire a questa possibilità, cerca una connessione con qualcuno, aspetta una risposta.
Tante altre foto ho trovato, più o meno interessanti, ma l’ultima è stata una rivelazione incredibile. Non ve la mostrerò, ve ne parlerò, per concludere questa storia. Nell’ultima foto c’è una bambina appena nata che piange, sembra all’ospedale sulla pancia della mamma. In secondo piano si vede mio padre da giovane che tiene una fotocamera al collo, e vicino a lui s’intravedono i miei nonni.
La bimba di questa foto, come ha confermato la mamma, sono io.
La Macchina del Tempo
Fotografie di: Sandro Bini
Testo di: Sara Severini
Gli autori si presentano così:
SANDRO BINI
SARA SEVERINI
Nota della redazione: Sara non ha trasmesso informazioni su di sé, solo un indirizzo mail che per ragioni di privacy non pubblichiamo.