martedì 6 marzo 2012

Se oggi non sappiamo attendere più, è perché siamo a corto di speranza

Stanno arrivando le prime narrazioni fotografiche per il nostro contest L'attesa. Naturalmente non vogliamo anticiparvi nulla ma le fotografie e le parole che le accompagnano cominciano a delinare quanto questo tema sia sfaccettato, affascinante, trasversale.
Ci siamo messi un po' a curiosare in rete inserendo la parola "attesa" in google. 

Una delle frasi che ci ha colpito è quella riportata nel titolo di questo post:
"Se oggi non sappiamo attendere più, è perché siamo a corto di speranza."
 Caspita. Fa pensare questa frase di Antonio Bello, meglio conosciuto come don Tonino Bello (1935 – 1993), vescovo cattolico e scrittore italiano. Attesa come speranza, lui la vedeva così. Un'altra sua frase recita: "Accogliere talvolta è segno di rassegnazione. Attendere è sempre segno di speranza."
Un punto di vista di un uomo di fede, un filosofo e uno scrittore.

Poi siamo andati su Flickr e qui ci hanno accolto un sacco di immagini. Tra quelle accompagnate da parole oggi ve ne presentiamo due: la prima è lo scatto di Andrea Tiberini che ha associato ad una strofa tratta dalla canzone del grande Giorgio Gaber "L'attesa"


L’attesa è una suspense elementare
è un antico idioma che non sai decifrare
è un’irrequietezza misteriosa e anonima
è una curiosità dell’anima.

La seconda è di Gianfranco Liccardo che sceglie alcune parole di Valeria Parrella tratte dal suo primo romanzo Lo spazio bianco, ambientato in una Napoli lontana dai cliché dove Maria, insegnante di italiano in una scuola serale, diventa madre di Irene, una bimba nata prematura. Maria dovrà percorrere insieme ad Irene lo spazio bianco, i tre mesi cioè in cui la bambina rimarrà nell'incubatrice del reparto prematuri in attesa di sapere se riuscirà a crescere fino ad acquisire la capacità di respirare da sola.

 
Non sono buona ad aspettare. Aspettare senza sapere è stata la più grande incapacità della mia vita. Nell’attesa ho avuto lo spazio per costruire enormi impalcature di significato, e dieci minuti dopo farle crollare, per mia stessa mano. Poi riprendere da un punto qualunque, correggere il tiro di qualche centimetro per rendere la costruzione immaginata più solida. Vederla crollare di nuovo. Ho speso svariati fine settimana della mia vita in quest’opera, e pur riconoscendola, non ho mai saputo distrarmi. Ho sentito la tragedia dell’attesa arrivare da lontano, da una telefonata, da un viaggio, da una mail, da una notte di sesso, da un ospedale. Ho scelto dal mio arsenale di dischi la musica che incalzasse l’angoscia, quella per stemperarla, poi più che pinagere: per sfinimento mi addormentavo. Nell’attesa ho sempre fatto sogni chiari, di epoche che non ho dovuto conoscere nè attraversare, il sogno è stato il tempo speso meglio, e una volta sveglia il dolore era decuplicato. Io non so aspettare e non voglio farlo, nell’attesa i mostri prendono forma e si ingigantiscono, mangiano le ore per crescere e mangiarmi. Non sento curiosità nel dubbio, nè fascino nella speranza, fossi stata Eracle, non mi sarei fermata al bivio.
(da Lo spazio bianco, di Valeria Parrella)

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